
La mente umana è da sempre un mistero affascinante per scienziati e ricercatori di tutto il mondo. Un mistero che diventa ancora più sfidante quando si tratta della mente di un interprete di simultanea; molti studiosi, infatti, continuano a chiedersi: “che cosa accade al cervello di un interprete quando inizia a tradurre?”.
Un interprete di simultanea – come spiega Fulvio Novì in un suo recente articolo pubblicato lo scorso giugno – mette in atto un processo mentale che può essere scomposto in 5 fasi eseguite contemporaneamente, in un ciclo continuo:
Le neuroscienze sostengono che questo è possibile grazie al nucleo caudato, un vero e proprio direttore di orchestra che coordina le attività di diverse zone del cervello per consentire l’esecuzione di compiti complessi come l’interpretazione simultanea.
Attraverso particolari tecniche di risonanza magnetica i ricercatori hanno, inoltre, osservato un fenomeno molto interessante: man mano che l’interprete acquisisce esperienza nel suo lavoro, il nucleo caudato viene attivato di meno perché il cervello cambia e si adatta per consentire all’interprete di tradurre in modo sempre più efficiente e facendo meno fatica.
Per comprendere cosa significa essere un interprete di simultanea e quali sono gli aspetti più affascinanti di questo mestiere, al di là del puro funzionamento cerebrale, abbiamo fatto qualche domanda a Giorgia, collaboratrice di STUDIO TRE.
Giorgia ha iniziato 8 anni fa a lavorare nel mondo dell’interpretariato, durante una fiera in Germania. Specializzata nell’interpretazione dall’inglese/tedesco all’italiano segue, in particolare, aziende dei settori automotive, meccanico e moda.
La curiosità è fondamentale in questo lavoro: essere curiosi, infatti, ti permette di conoscere in modo approfondito le lingue e le culture in tutte le loro sfaccettature. Inoltre, è necessario padroneggiare i vari registri lessicali per adattarsi a quello dell’oratore ed essere sempre aggiornati sulla cultura generale. È importante anche una buona dose di sicurezza in se stessi e nella propria voce.
Prevedere lo svolgimento del discorso, imparare a predire quello che l’oratore sta per dire, anticipando le sue scelte e, di conseguenza, acquisendo velocità nella traduzione. Tra i peggiori incubi degli interpreti c’è sicuramente l’audio pessimo: spesso è complicato far capire che se non sento bene farò molta difficoltà a tradurre.
Gestire l’eloquio dell’oratore, soprattutto quando non è abituato a parlare in pubblico. Fin da subito ho sviluppato una profonda empatia che mi permette di gestire la traduzione sia di chi parla troppo lentamente sia di chi parla troppo velocemente e di trovare il ritmo più naturale possibile così da non infastidire chi ascolta.
Oggi fare il mio lavoro mi diverte molto, anche quando gli oratori parlano “a razzo” o ci sono imprevisti di vario genere. Dal punto di vista linguistico, ho ampliato notevolmente il mio bagaglio terminologico.
L’interpretariato diventa quasi una seconda pelle: quando mi imbatto in una parola straniera che non conosco il mio istinto è di cercarla sul dizionario e, a volte, quando leggo o ascolto la radio mi viene naturale pensare a come tradurrei una determinata frase. E poi devo guardare almeno un TG al giorno per essere sempre “sul pezzo” 😊.
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